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Ciclo XXI

  • Giordana Di Ermenegildo - La metamorfosi della storiografia cristiana in Spagna tra V e VII secolo

    La tesi si ripropone di delineare la metamorfosi della storiografia cristiana in Spagna tra V e VII secolo attraverso le opere di quattro autori: Idazio di Chaves, Giovanni di Biclaro , Isidoro di Siviglia e Giuliano di Toledo. Nell’analisi intrapresa vengono valorizzati quattro aspetti ritenuti utili al fine di definire in che modo gli autori, con i loro scritti, concorrono al mutamento. Il primo aspetto concerne il back-ground di compilazione, la ricostruzione del clima storico-politico e, soprattutto, gli intenti della volontà di scrivere storia. Lo scopo viene raggiunto mediante cenni biografici dei protagonisti e le specifiche delle loro qualità di intellettuali, le propensioni e i convincimenti politici, gli eventuali rapporti con il potere ed i ruoli assegnati a questi personaggi dagli avvenimenti. Il secondo aspetto messo in luce riguarda la tipologia delle opere analizzate, e la loro riconduzione a due diverse sottocategorie storiografiche: la chronaca e l’historia. Il terzo aspetto è inerente agli intenti che animano gli scrittori come uomini di chiesa: quale componente escatologica, se presente, è rintracciabile nella loro visione del mondo? Vengono infine esaminate le forme letterarie e linguistico-grammaticali della comunicazione.



  • Nicoletta Bonansea - SIMBOLO E NARRAZIONE: Linee di sviluppo formali e ideologiche dell’iconografia di Giona tra III e VI secolo

    La tesi intende analizzare lo sviluppo formale e ideologico dell’iconografia di Giona nell’arte cristiana tra III e IV secolo, al fine di mettere in luce alcuni aspetti sociali e politici del processo di cristianizzazione a Roma. L’iconografia di Giona compare nelle catacombe romane all’inizio del III secolo come un ciclo narrativo che mostra il profeta inghiottito e rigettato dal mostro marino e sdraiato sotto la cucurbita. Queste tre scene sono scelte per due ragioni: il loro valore simbolico – la morte e resurrezione di Cristo e la necessità di perdonare il penitente – e per le analogie formali con alcune iconografie funerarie tardo-ellenistiche che presentano la morte come un passaggio a una condizione beatifica. Tra III e IV secolo questa iconografia subisce cambiamenti formali intesi a rafforzare gli aspetti narrativi e descrittivi dell’immagine e il suo legame con il testo biblico. Durante l’epoca costantiniana l’iconografia di Giona ricorre su affreschi e sarcofagi romani con maggiore frequenza, ma senza sostanziali cambiamenti formali. Durante la seconda metà del IV secolo e specialmente durante il V e VI la diminuzione della sua diffusione è drastica. Lo sviluppo “biblicizzante” dell’immagine può essere spiegato come un’affermazione della propria identità culturale e religiosa da parte di gruppi cristiani che, grazie alle riforme amministrative di Diocleziano, emersero sulla scena socio-politica del III e IV secolo. L’espansione della produzione funeraria sotto Costantino riflette l’allargamento, ma anche l’arricchimento, di questi gruppi cristiani. La sua politica in favore dei cristiani potrebbe dunque essere interpretata anche come un modo per ottenere il supporto di queste nuove forze sociali. 

Ciclo XXII

  • Giulia Masci - Le elaborazioni teoriche della "romanizzazione" nelle fonti letterarie antiche



  • Edoardo Bianchi - Il rex sacrorum a Roma e nell'Italia antica

    Lo studio è essenzialmente dedicato alla figura del rex sacrorum, uno dei membri del collegio romano dei pontifices, di cui si ricostruiscono le funzioni per il periodo compreso tra gli inizi della repubblica e la tarda antichità. Una seconda sezione del lavoro analizza tutte le epigrafi che attestano l'esistenza di reges sacrorum in altre città dell'antico Lazio e dell'Etruria, vale a dire Boville, Tuscolo, Lanuvio, Velletri, Fondi, Formia, Tarquinia e Fiesole.

Ciclo XXIII

  • Riccardo Ampio - Il De laude sanctorum di Victricio di Rouen nel dibattito sul culto delle reliquie e sull’ascetismo in Occidente alla fine del IV secolo.

    Victricio (ca 330/340-ante 409), vescovo di Ratomagus (Rouen) è autore di un’operetta databile fra il 395 e il 397/8, comunemente intitolata De laude sanctorum, poiché l’elemento che maggiormente la caratterizza è l’elogio dei santi la gioia per l’arrivo delle loro reliquie, donate da Ambrogio e da altri tre vescovi. Particolarmente interessanti sono i capitoli 7-11 dell’opera, nei quali Victricio elabora una vera e propria teologia delle reliquie, con l’evidente tentativo di portare sul piano ontologico la virtù taumaturgica di esse. La prima tappa del mio lavoro è consistita nella traduzione del De laude sanctorum, la prima in lingua italiana, che ha consentito di individuare elementi originali rispetto alla traduzione in francese di R.Herval e a quella in inglese di G.Clark, sia nell’interpretazione del testo, sia nella costituzione di esso. Si è reso conseguentemente indispensabile un commento di carattere storico e filologico dell’opera, data l’assenza di precedenti significativi. Il dossier di Victricio è stato completato da uno studio attento delle epp. 18 e 37 di Paolino di Nola e della decretale di Innocenzo I. che hanno consentito di mettere in luce alcuni tratti della personalità dell’autore e di aggiornare la sua biografia con congetture verisimili. Queste due prime fasi sono state propedeutiche alla vera e propria analisi dei contenuti, da cui sono emersi alcuni temi di notevole interesse per la storia delle idee, anche per la loro originalità nel panorama della teologia martiriale. Tali temi costituiscono la prima sezione del lavoro, che si articola in tre capitoli , dedicati rispettivamente alla biografia dell’autore ( I.1 Le fonti; I.2 Il Victricio del De laude sanctorum; I.3 Il Victricio di Paolino), al suo profilo culturale (II.1 Il De laude sanctorum; II.2 La biblioteca di Victricio) e a Victricio come testimone della teologia e del culto dei santi nella Gallia della fine del IV secolo ( III.1 Il dibattito in Occidente sulla traslazione delle reliquie; III.2 Ambrogio, costruttore di chiese e primate della Italia annonaria; III.3 Victricio promotore del culto dei santi; III.4 L’adventus reliquiarum; III.5 Il vescovo di Rouen; III.6 La teologia delle reliquie; III.7 Il De laude sanctorum nel contesto delle polemiche religiose in Gallia). Seguono il testo latino, con le varianti da me proposte, la traduzione italiana ed infine il commento.



  • Alessandro Rossi - Muscae moriturae Donatistae circumvolant: identità “plurali” nel cristianesimo dell’Africa Romana e loro dialettica interna

    La mia ricerca ha esplorato la possibilità, anche in grazia di un percorso di aggiornamento relativo alle acquisizioni delle discipline storico-economiche, archeologiche e linguistiche degli ultimi decenni, di de-strutturare la costruzione ideologica delle fonti antiche sul donatismo; si è tentato di riconoscere l’attribuzione di senso e significato che agli avvenimenti diedero i protagonisti diretti, superando la deformazione prospettica operata da Ottato di Milevi e da Agostino. Questo percorso ha portato al riconoscimento di elementi della costruzione identitaria donatista finora rimasti al margine della ricostruzione storiografica, e a una più approfondita conoscenza dei metodi di “normalizzazione” impiegati dalla catholica dopo la Conlatio cartaginese del 411.



  • Eliana Stori - Tommaso in Siria: la ricezione del Vangelo secondo Tommaso nella letteratura cristiana di Siria (II-V secolo)

    Scopo principale della mia tesi di dottorato è l’indagine dei rapporti del Vangelo di Tommaso con la prima letteratura cristiana di Siria. Per far ciò ho dapprima analizzato la figura di questo apostolo così importante per il cristianesimo di Siria perché tradizionalmente ritenuto il fondatore della fede cristiana in questa regione. Nella seconda parte del mio lavoro mi sono invece concentrata sui paralleli tra il testo copto (e quando disponibile anche quello greco) del Vangelo di Tommaso con alcune opere appartenenti alla letteratura siriaca facendo una analisi sistematica di essi. Proprio questa è la parte originale della mia tesi: mancava infatti nel panorama degli studi una indagine approfondita in tal senso, essa è importante al fine di una miglior comprensione di questo testo così come del primo cristianesimo siriaco. La mia indagine ha preso in considerazione soprattutto quattro testi del primo cristianesimo siriaco che mostrano i maggiori legami con il Vangelo di Tommaso: il Diatessaron, armonia evangelica composta da Taziano, le Odi di Salomone, gli Atti di Tommaso e il Liber Graduum. Le conclusioni che ne sono emerse nella maggior parte dei casi esaminati non ci permettono di individuare una sicura conoscenza del Vangelo di Tommaso da parte delle opere esaminate, ma evidenziano lo stesso forti legami, forse frutto di tradizioni comuni.

Ciclo XXIV

  • Francesca Rocca - La manomissione degli schiavi in Grecia: libertà o liberazione?

    Il progetto di ricerca condotto nei tre anni di scuola dottorale concerne lo studio della manomissione degli schiavi nell’antica Grecia. La scelta dell’argomento è stata dettata dalla volontà di proseguire il lavoro avviato per il conseguimento della Laurea Magistrale. In questa occasione, infatti, avevo avuto modo di confrontarmi con le iscrizioni relative alla liberazione degli schiavi, rinvenute all’interno del santuario degli Dei Cabiri, sito sull’isola di Lemno. Proprio dal tentativo di contestualizzare i documenti lemni in un quadro più generale, è emersa la necessità di operare una serie di confronti affidabili con altre iscrizioni, che testimoniassero la prassi di concedere l’emancipazione agli schiavi nelle diverse regioni della Grecia. La ricerca per la quale ho avuto modo di lavorare durante questi anni di dottorato, pertanto, si è posta come obiettivo la comprensione della pratica della manomissione sulla più ampia scala geografica possibile e su un arco cronologico sufficientemente esteso. L’idea che ho cercato di ampliare nell’intera tesi mi sembra possa trovar un’iniziale espressione nella domanda: la manomissione degli schiavi nella Grecia Antica concedeva la libertà o, semplicemente, la liberazione? Il quesito può forse sembrare un inutile gioco linguistico, ma cela una serie di interrogativi concreti e molto spinosi. La manomissione garantiva realmente l’eleutheria allo schiavo? E soprattutto, in quale forma e con quali garanzie? Volendo semplificare: l’emancipazione che l’affrancato otteneva era concretamente sinonimo di assenza di vincoli, di integrazione e di “partecipazione”, in ogni regione e in ogni epoca? Lo studio dei testi epigrafici è stato basilare per arrivare a una risposta soddisfacente, ma si è anche rivelato un percorso ingannevole. Quando si prendono in mano per la prima volta i documenti relativi alla manomissione, infatti, si ha subito la sensazione di avere a che fare con un materiale particolarmente ripetitivo e perlopiù omogeneo. La struttura dei testi si compone di un formulario che si mantiene praticamente identico in aree geografiche talora molto distanti e in una forbice cronologica molto ampia. Anche i modi di affrancare, a prima vista, sembrano seguire le stesse regole. Per secoli, in gran parte delle regioni della Grecia continentale e insulare, ad esempio, si continua a manomettere all’interno dei santuari, consacrando i propri schiavi al dio. Dietro a questa omogeneità terminologica e dietro alla comunanza nella prassi, però, si cela un orizzonte giuridico sfaccettato. Le nozioni di diritto greco che ho avuto modo di acquisire dai manuali specifici, infatti, sottolineano con forza l’inadeguatezza dell’espressione “diritto greco”, favorendo invece una definizione che metta l’accento sulla molteplicità delle consuetudini vigenti in Grecia. Al netto di ciò, lo studio della manomissione, anziché semplificarsi, si complica: come si può conciliare, infatti, l’apparente uniformità riscontrabile nei formulari e nei modi di affrancare, con la moltitudine di esperienze giuridiche esistenti sul suolo greco? Per rispondere alla domanda è stato necessario esercitare il “mestiere dello storico” di cui parlava Momigliano e addentrarsi nel campo dell’interpretazione, che nell’analisi della condizione assunta dai liberti nelle diverse regioni della Grecia è stata fondamentale. L’obiettivo è ambizioso: si è infatti cercato di comprendere se dietro a un formulario tanto monocorde si nascondesse una reale comunanza di status o meno. In sintesi, l’obbligo di rimanere presso l’antico padrone aveva lo stesso significato a Lemno, nel I secolo a. C., e a Delfi, nel III a. C.? E inoltre: il termine apeleutheros definiva davvero lo stesso status, con gli stessi obblighi e gli stessi doveri, ad Atene e a Butrinto? L’unico modo per venire a capo della questione è stata l’attuazione di un’indagine delle realtà economiche e sociali che le diverse regioni rivelavano nell’arco dei secoli, nel tentativo di acquisire le competenze necessarie per portare avanti lo studio. L’articolazione dei capitoli segue il filo logico al quale ho tentato di tener fede durante la ricerca. Dopo una rapida presentazione dello stato dell’arte, che ha rivelato alcune lacune esistenti negli studi di settore, si è definito l’orizzonte cronologico e quello geografico ai quali estendere l’indagine. La scelta delle fonti da consultare, poi, ha occupato gran parte del capitolo sul metodo. Una volta chiarite le modalità con cui ci si è approcciati alla materia, sono stati presentati i capitoli dedicati alle caratteristiche comuni, così come emergono dallo studio dei testi epigrafici e letterari, e cioè i formulari e i modi di manomissione. Al quadro ateniese è stato invece riservato un capitolo a sé; le iscrizioni che attestano l’uso di dedicare una phiale argentea, del peso di cento dracme, da parte dei liberti citati in giudizio dai propri manomissori, sono molto complesse e hanno richiesto, pertanto, autonomia nella trattazione. Per proporre un’analisi di questi documenti, che abbia l’ambizione di essere completa, è stata poi fondamentale la revisione degli studi prosopografici condotti sui querelanti menzionati nei documenti. L’ultima sezione, infine, concerne le realtà giuridiche regionali, che la terminologia uniforme, impiegata per descrivere la condizione dei manomessi, in ambiti geografici talvolta molto differenti e nell’arco dei secoli, spesso nasconde.

 

Ciclo XXI

  • Serena Viel - La circolazione dei manufatti pregiati a Genova nei secoli XII e XIII

    La ricerca ha come oggetto lo studio del rapporto fra domanda e consumo di beni pregiati relativi all'abbigliamento all'interno del contesto sociale ed economico genovese di età comunale al fine di comprendere i significati simbolici e culturali, oltre che commerciali, della circolazione di tali manufatti. Lo studio è stato condotto mediante l'analisi delle fonti documentarie e letterarie, considerando in particolare i dati presenti all'interno della documentazione inedita conservata nei fondi dell'Archivio di Stato di Genova.

Ciclo XXII

  • Matteo Francesco Joachim Magnani - L’amministrazione della giustizia a Torino alla fine del Trecento. Reati, conflitti e risoluzione delle dispute in un comune principesco

Ciclo XXIII

  • Ezio Claudio Pia - La gustizia del vescovo di Asti: società, economia e chiesa cittadinatra XIII e XIV secolo

    La linea guida di questo lavoro è costituita dall’analisi dei modi e delle forme mediante i quali la Chiesa e il suo tribunale orientano le dinamiche sociali. E’ emersa la funzionalità politica ed economica dei lessici che trovano una mediazione e una sistemazione nella produzione notarile legata alle strutture ecclesiastiche. La base per la ricerca è rappresentata in primo luogo dai contributi che hanno esaminato il funzionamento degli organismi canonicali come strutture in relazione dinamica con la società cittadina. Determinanti, nella costruzione di questo studio, sono risultati anche i lavori che hanno analizzato i sistemi documentari capitolari e vescovili a partire dal duplice modello che contrappone la chiesa notarile italiana alle strutture cancelleresche europee. Questa interpretazione è stata riconsiderata alla luce di puntuali ricerche diplomatistiche che hanno investito numerose aree europee. Tale lettura ha guidato l’analisi della ricca documentazione ecclesiastica astigiana e in particolare dei cartulari capitolari, oltre 4000 carte risalenti ai secoli XIII e XIV. Questi registri, proprio per l’ibridazione dell’attività dei notai di curia – operanti in base a competenze cancelleresche e in qualità di depositari della publica fides –, attestano due aspetti dell’attività della curia: il funzionamento del tribunale coordinato dai vicari vescovili e la certificazione di relazioni economiche, che riguardano circuiti sociali e creditizi ampi, non solo legati alla Chiesa. Intorno al tribunale vescovile, procedure giudiziarie articolate, verbalizzazione di rapporti finanziari e, infine, la regolazione di comportamenti usurai rientrano in un percorso di definizione di criteri di credibilità economica e sociale in riferimento a pratiche che, non senza incertezze e ambiguità, segnano il confine tra inclusione e esclusione.

Ciclo XXIV

  • Denise Bezzina - Artigiani a Genova, secc. XII-XIII

    Benché gli appartenenti alle categorie di professione costituiscono la maggioranza degli abitanti cittadini nel periodo oggetto di indagine, la storiografia che ha trattato il tema è, salvo poche eccezioni, a tutt’oggi ancorata piuttosto al tema del lavoro. La maggior parte degli studi che direttamente o indirettamente affrontano il problema inoltre si basa prevalentemente su fonti di natura normativa, che certamente non riflettono la complessità del ceto artigiano. Più nello specifico, l’orientamento della storiografia di matrice genovese, così impegnata a definire la figura del grande mercante, ha fatto sì che il tema degli artigiani fosse sottovalutato proprio laddove la disponibilità di fonti ‒ per un’altezza cronologica che rispetto ad altre città risulta precoce ‒ è così ampia da permettere una lettura molto più dettagliata degli aspetti che connotano la vita del ceto produttivo. L’intento di questa ricerca è di sopperire a questa mancanza facendo leva sull’ampia disponibilità di fonti di natura privata per i secoli XII-XIII. Il lavoro di schedatura si è dunque giocoforza concentrato sulla schedatura dei documenti notarili conservati nel fondo Notai Antichi dell’Archivio di Stato di Genova. Non essendo possibile, dato l’arco cronologico, schedare tutti i documenti relativi agli artigiani all’interno di ogni cartulare (i cartulari relativi al periodo in esame sono circa 150), si è deciso di operare una scelta drastica e di concentrare la ricerca sui rogiti di un gruppo di notai i cui protocolli presentano un numero elevato di imbreviature con protagonisti personaggi provenienti dal mondo dei mestieri. La scelta dei cartulari da schedare è stata fatta in base a un’indicazione di Roberto Sabatino Lopez che in uno studio sull’arte della lana a Genova fornisce i nominativi di dieci notai con una clientela prevalentemente artigiana (Lopez, 1936, pp. 80-81). La necessità di trovare dei contesti a fini comparativi ha spinto inoltre a schedare la documentazione notarile edita pertinente ad altre città, in particolare Venezia e Marsiglia. Alla schedatura dei protocolli notarili inediti, è stata aggiunta tutta la documentazione edita relativa ai secoli XII-XIII: i cartulari di sette notai operanti a Genova fra la seconda metà del secolo XII e il terzo decennio del secolo XIII; la documentazione rogata da altri sei notai residenti nelle colonie genovesi; la documentazione relativa agli enti ecclesiastici, ovvero i cartari di cinque monasteri e i due registri della curia arcivescovile di Genova. Infine, al fine di valutare fino a che punto vi sia un accesso alle cariche di governo da parte degli artigiani, sono stati setacciati i documenti all’interno dei Libri Iurium e gli Annali genovesi. La griglia di domande a cui sottoporre la documentazione è stata elaborata in una fase successiva, una volta acquisita la disponibilità di una schedatura consistente, la cui lettura poteva già fornire indicazioni su come procedere. È stata la disponibilità delle singole tipologie contrattuali con le loro specifiche particolarità a suggerire i sette temi attorno a cui si articola il presente studio. 1. Il sistema antroponimico e la provenienza del ceto artigiano: i sistemi antroponimici in uso presso il ceto artigiano sono rivelatori dell’identità degli appartenenti alle categorie di mestiere. Al fine di individuarne gli aspetti più salienti, tutti i nominativi rilevati nei rogiti notarili sono stati inseriti all’interno di una griglia suggerita dagli studi sui sistemi antroponomastici apparsi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (Martin, 1994, pp. 320-323; Bourin, 1994, p. 316). Il dato più significativo che emerge dalla cernita dei nominativi degli artigiani è la netta prevalenza del sistema di denominazione che alla designazione del mestiere unisce una designazione di luogo. Tale modalità di denominazione palesa come la maggioranza degli artigiani presenti nella città ligure siano immigrati. In quest’ottica, sono due i principali bacini di immigrazione: il primo, quello prevalente, è costituito dal Levante ligure, già definito in altre sedi (Savelli, 2003, pp. 74-87) come il vero districtus Ianuae. Un secondo importante bacino di immigrazione è costituito dall’immediato entroterra genovese, inclusa la Val Polcevera. Il caso genovese si inserisce in questo modo all’interno di quanto descritto dalla storiografia come un intenso movimento di migratorio, un “inurbamento delle campagne” che ha luogo in altre città proprio nei secoli in esame (Comba, 1988, p. 18). 2. Apprendistato e mondo del lavoro: i documenti di apprendistato, in linea con quanto evidenziato nel primo capitolo, confermano come il reclutamento della manodopera avviene dalle zone che registrano la più larga immigrazione verso la città. Al contrario di quanto suggerito dalla corrente storiografia genovese (Hughes, 1983, p. 133), il periodo di apprendistato non inizia in età tarda ma relativamente presto: la lunghezza del tirocinio non incide sulla possibilità dei giovani di mettere su famiglia presto, poiché quando accedono al mondo del lavoro come maestri sono ancora in una fascia di età che rientra fra i 20-25 anni. La disamina dei contratti di apprendistato ha determinato l’individuazione di due tipologie contrattuali diverse: la prima prevede che all’apprendista sia corrisposto meramente il vitto e l’alloggio, mentre la seconda prevede la corresponsione di un salario al tirocinante. Proprio quest’ultima tipologia contrattuale è presente in altre città sia italiane (Greci, 1988, p. 238; Franceschi, 1996, p. 71), sia al di fuori dalla penisola (Michaud, 1994, p. 8). La corrente storiografia concepisce questa forma di “apprendistato salariato” come una specie di “mutazione genetica” del contratto di apprendistato (Franceschi, 2001, pp. 185-191; Zanaboni, 2009, pp. 34-35). Tuttavia, questo può anche essere un indizio che il periodo di apprendistato è svolto in più tranches: una volta acquistata esperienza, una seconda parte dell'apprendistato è retribuita. I contratti di lavoro veri e propri, individuabili dall'assenza della clausola causa addiscendi sono in netta minoranza rispetto ai contratti di apprendistato. La preponderanza di contratti di apprendistato rispetto ai contratti di lavoro da una parte conferma quanto già specificato circa la mancanza di importanza del lavoro salariato nel medioevo (Geremek, 1966, p. 386), dall'altra specifica che il mondo del lavoro è in realtà ancorato alla bottega del singolo maestro che opera da solo o con l'aiuto di apprendisti. Si tratta di un sistema connotato dall’autonomia di gestione, in cui una volta concluso il tirocinio, con o senza retribuzione, la poca disponibilità di lavoro subordinato spinge i giovani a ritagliarsi uno spazio autonomo come maestro. Nonostante il dibatto sul Verlagssystem ‒ un modello secondo il quale il mercante, in cambio del prodotto finale che poi rivendeva a prezzo vantaggioso, anticipava il materiale oppure il prodotto semi-finito e parte della retribuzione all’artigiano ‒ riguardi un periodo più tardo (Rutenburg, 1971, pp. 25-76; de Roover, 1968, pp. 296-297), le argomentazioni addotte spingono a domandare se sussistano e come si articolino i legami fra mercanti e artigiani. Punto focale dell’argomentazione degli storici che hanno trattato il tema sono le modalità di rifornimento delle materie prime. Nonostante le compravendite di materia prima sono in tutti i casi operazioni creditizie, la disamina di tale documentazione suggerisce che ogni singolo artigiano tende a rifornirsi da mercanti diversi. Si tratta dunque di un sistema ben lontano dal Verlagssystem poiché l'artigiano è svincolato da qualsiasi forma di dipendenza sia nel lavoro, sia nell’approvvigionamento delle materie prime. I contratti che menzionano le attività di lavoro femminile sembrano delineare un ruolo duplice delle donne: la considerazione che, da una parte, esse figurano spesso come aiutanti del marito nelle attività lavorative, e, dall’altra, il fatto che le donne non sempre pratichino il mestiere del marito e che abbiano anche abbastanza autonomia nella gestione di un proprio patrimonio, chiarisce come anche il sistema di lavoro familiare sia molto complesso. 3. Modalità di finanziamento del mondo artigiano: il capitolo verte sui dati raccolti dalla disamina dei documenti di commenda, di società di lavoro e di mutuo gratis che, assieme alla dote, si configurano al contempo come le principali modalità di accesso al credito/finanziamento e di investimento. L’assiduo ricorso da parte degli artigiani a questi strumenti evidenzia come l’accesso al credito sia molto facile. La commenda si configura come la principale forma di investimento, essendo lo strumento finanziario a cui gli artigiani fanno ricorso più di frequente. Le società di lavoro, contratte per periodi molto brevi, sono invariabilmente strette fra un socio attivo che si impegna a prestare opera e un socio passivo che investe il capitale e quasi mai da artigiani che si impegnano a lavorare insieme. Questo dato è pienamente coerente con il sistema di lavoro descritto nel capitolo 3, ovvero un assetto che si basa prevalentemente sul lavoro autonomo del singolo artigiano. La disamina dei contratti di mutuo gratis, invece, ha rivelato modi in cui questo strumento può essere usati a fini di usura. La disamina di tale documentazione ha rivelato sia aspetti economici, sia aspetti che riguardano le interazioni sociali (essendo tutte e tre tipologie contrattuali strettamente basate sulla fiducia). Dal punto di vista prettamente economico è da rilevare che in tutti e tre i casi le somme oggetto di transazione sono perlopiù basse: mentre è evidente come vi siano nette differenze fra i patrimoni accumulati dagli artigiani, è chiaro come la mobilità sociale sia in effetti molto limitata. In tutti e tre i casi è palese che l’interazione sociale avviene fra individui della medesima estrazione sociale, mentre non è stato rilevato alcun interesse da parte del ceto dirigente né verso l’investimento nelle attività lavorative attraverso la stipula di società di lavoro, né verso la creazione di legami di dipendenza attraverso la concessione di mutui. 4. Gli artigiani genovesi nel Mediterraneo: la presenza dei genovesi nelle principali piazzeforti commerciali del Mediterraneo testimoniata non solo dai documenti raccolti dai cartulari dei notai operanti a Genova, ma anche dalle imbreviature dei notai di Oltremare ha permesso di definire alcuni aspetti legati sia alla partecipazione degli artigiani genovesi alle attività commerciali sia alla mobilità territoriale degli appartenenti al mondo dei mestieri. Le numerose attestazioni tanto di artigiani che partono in veste di socii tractantes ‒ ovvero soci attivi incaricati di commerciare manufatti oppure denaro ‒ o come protagonisti di altri contratti di tipo commerciale quale il cambio marittimo, quanto di artigiani che sono possessori di imbarcazioni, evidenziano un’intima conoscenza della pratica della mercatura anche da parte dei ceti medio-bassi. Il lavoro non è l’unico ambito di azione degli artigiani: anzi la massiccia adesione allo strumento della commenda indica che questi individui riescono a creare una rete commerciale “parallela” a quella creata dai grandi operatori commerciali, poiché mentre gli strumenti adoperati sono i medesimi, non è stato rilevato alcun tipo di contatto con i grandi mercanti. La discussione serve anche a porre una domanda fondamentale: il caso genovese è un unicum oppure si può estendere questo particolare assetto anche ad altri contesti? L’estrema mobilità degli individui caratteristica di un periodo di forte espansione assieme all’ubiquità delle forme contrattuali suggeriscono che Genova è meramente un case-study. Mentre gli studi che si sono concentrati sugli artigiani tendono a mettere a fuoco gli aspetti che riguardano il mondo del lavoro, il caso genovese suggerisce una linea di ricerca che non è stata ancora battuta per quanto riguarda gli appartenenti alle categorie di professione, e che può possibilmente svincolare gli artigiani dall’immagine di staticità che deriva da una discussione storiografica che si è basata troppo sulle corporazioni delle arti e sui libri dei conti. 5. Famiglia, patrimonio e relazioni sociali: il tema della famiglia artigiana nella città ligure dei secoli XII-XIII è stato già oggetto di riflessione negli articoli di Diane Owen Hughes. Tuttavia la disponibilità di un ampio numero di documenti dotali e di strumenti testamentari ha permesso di aggiungere sfumature a quanto specificato dalla storica statunitense. In particolare, i dati raccolti suggeriscono che la famiglia nucleare, indicata da Hughes come l’assetto familiare tipico del mondo artigiano e ripreso in altri studi per descrivere i comportamenti familiari delle categorie di professione (Degrandi, 1996, pp. 81-96; Franceschi, 2000, p. 106), non è l’unico modello utile a descrivere le relazioni degli appartenenti ai ceti medio-bassi. Sotto quest’ottica risultano particolarmente rivelatori i testamenti rogati in assenza di prole che rivelano come ‒ al contrario di quanto postulato dalla storiografia ‒ i beni non sono immancabilmente trasmessi al coniuge, anzi molto spesso sono i membri della famiglia di origine a ereditare. Sicuramente, la motivazione che sta dietro alla scelta di favorire i parenti di sangue è di evitare che i beni della famiglia possano servire al coniuge che sopravvive per creare un nuovo nucleo familiare in caso decida di maritarsi nuovamente. Risultano particolarmente pregnanti le relazioni sociali che gli artigiani riescono a intessere. In piena coerenza con quanto emerso dalla discussione nel capitolo 2, gli artigiani tendono a relazionarsi con individui della loro medesima provenienza sociale, mentre il contatto con individui provenienti dal ceto più elevato è limitato a pochissimi casi. La frequenza con cui gli artigiani interagiscono con persone esterne alla loro famiglia e la qualità delle relazioni che riescono a intessere, ha spinto ad applicare il concetto di fictive kinship: una nozione usata negli studi di taglio antropologico (Levi, 1990, pp. 571-572) che descrive quei legami che, pur non scaturendo da vincoli di sangue, conservano le medesime qualità. Sembrano rientrare all’interno di questa descrizione tutte le menzioni all’interno dei testamenti dei fedecommissari preposti alla distribuzione dei beni e i tutori dei figli minori che nella maggior parte dei casi sono scelti all’interno della cerchia di socializzazione del testatore e non fra i parenti. L’aspetto della socializzazione copre anche i rapporti di stampo conflittuale evidenti negli arbitrati e che continuano a confermare la tendenza degli artigiani di intrattenere rapporti con persone della loro medesima provenienza sociale (anche se non necessariamente si tratta di altri artigiani) poiché i conflitti non solo nascono, ma vengono anche risolti all’interno dell’ambito sociale di appartenenza. A fronte di queste considerazioni, appare semplicistico descrivere la famiglia attraverso due modelli contrapposti, quello aristocratico e quello artigiano. La vita familiare e sociale del mondo artigiano è costellata da una articolata rete di relazioni che ‒ in una società così complessa ‒ sono dettate da esigenze che cambiano di famiglia in famiglia: ciascuna famiglia, senza che si discosti da regole accettate, sceglie a seconda della situazione chi accogliere all’interno del proprio nucleo. Le “regole” che dettano le relazioni appaiono di conseguenza molto elastiche e la famiglia risulta sicuramente meno “isolata” e incentrata sul rapporto fra i coniugi di quanto viene concepita dalla storiografia. 6. La disponibilità immobiliare degli artigiani: in questo capitolo la discussione è stata incentrata su tre nuclei problematici, così come evidenziati dalla documentazione raccolta. Innanzitutto si è cercato di stabilire se vi sia un’ordinata ripartizione topografica degli appartenenti a singole categorie professionali. Mentre la storiografia di matrice genovese (Grossi Bianchi, Poleggi, 1980, pp. 76-77) afferma che nel periodo in esame le abitazioni degli artigiani sono ordinate per quartiere, la documentazione suggerisce che l’assetto insediativo degli appartenenti alle categorie di lavoro sia, in modo molto simile a quanto già studiato per Bologna, Pisa e Vercelli (Pini, 1984; Salvatori, 1994, p. 141 sgg.; Degrandi, 1996, pp. 113-131), decisamente più disomogeneo. Gli altri due temi affrontati nel capitolo si basano sui documenti di compravendita e di locazione di terreni e di immobili. In questo senso si è cercato di definire il rapporto delle categorie di mestiere con il mercato immobiliare e, in linea con la storiografia che ha trattato il tema del mercato della terra, gli aspetti quantitativi che riguardano gli acquisti e le cessioni di terreni e la direzione dello scambio. I documenti di locazione, sia di case, sia di terreni ‒ al contrario di quanto viene solitamente evidenziato dalla storiografia ‒ essendo in tutti i casi solitamente contratti per tempi assai brevi, non sembrano indicare l’instaurazione di relazioni clientelari durature né con i ceti elevati, né con gli enti ecclesiastici. La durata breve dei contratti e l’alto numero di compravendite di terra inoltre sottolineano come si sia già parzialmente sviluppata una nozione per così dire “moderna” legata a un mercato “libero” della terra, evidente nel nord Europa a partire dagli ultimi due secoli del medioevo (van Bavel, Schofield, 2008, pp. 14-19), ma quanto mai precoce nel caso della città ligure, come del resto già sottolineato per la Toscana nello stesso periodo (Wickham, 1987, p. 374). Anche le dinamiche delle concessioni di terra, così prive di considerazioni legate ai vincoli parentali, si allineano perfettamente con quanto studiato per il contesto toscano (Wickham, 1987, pp. 374-375) e suggeriscono che i trasferimenti fondiari si basano esclusivamente sulla richiesta di suoli e non su regole interne alla comunità. Più in generale, la contrapposizione fra un mercato immobiliare cittadino denotato da una certa staticità e il dinamismo dei trasferimenti di terre ubicate all’esterno della cinta muraria, stabiliscono una sorta di dualismo città-campagna in cui le abitazioni urbane acquistano sempre più valore rispetto alle proprietà fondiarie nelle zone esterne alla città. 7. Gli artigiani nelle istituzioni: la disponibilità di un numero molto esiguo di documenti che illustrano la partecipazione politica degli artigiani non permette di stabilire con precisione il tasso di presenza nelle istituzioni governative. Si può, tuttavia, sicuramente dire che nonostante l’istituzione di un governo di popolo a metà secolo XII, gli appartenenti alle categorie di mestiere ‒ come fra l’altro già precedentemente notato in altri studi (Petti Balbi, 1986, p. 98; 1997, pp. 109-110) ‒ non rappresentano un gruppo di pressione abbastanza forte da favorire l’accesso in massa alle cariche di governo. Sotto quest’ottica è importante identificare le motivazioni che impediscono agli appartenenti alle categorie di mestiere l’accesso agli organi di governo. In questo caso due sono i fattori concatenati che paiono fondamentali: innanzitutto la tendenza a partecipare in modo molto attivo al commercio a lungo raggio ‒ sicuramente un canale di espressione sociale alternativo ‒ distoglie gli artigiani dalla partecipazione politica. In secondo luogo si riscontra una scarsa coesione e una mancanza di coordinazione dei gruppi ‒ parzialmente determinata anche dalla tendenza a prendere parte alle iniziative commerciali ‒ evidente nei contratti in cui gli artigiani cercano di sfuggire ai doveri militari. In considerazione dell’importanza attribuita alle societates armorum nell’ascesa dei regimi di popolo (Artifoni, 1986, p. 472), la mancata coordinazione sul piano militare potrebbe essere considerata come un’altra motivazione che impedisce agli appartenenti delle categorie di mestiere l’accesso alle cariche di governo. In ultima analisi, la lettura trasversale dei sette capitoli proposti in questo studio delinea un ceto dinamico che non rientra nella solita immagine statica proposta dalla storiografia. Si tratta di un ceto “polivalente” che non è vincolato al mero esercizio del proprio lavoro: il commercio e le attività militari rientrano pienamente nelle occupazioni degli artigiani, qualsiasi professione essi esercitano. L’altro grande tema, leggibile in più capitoli, è quello della mobilità territoriale: è evidente che si tratta di una couche sociale poco radicata in città, poiché molti artigiani vi sono presenti solo in via transitoria essendo impegnati nel commercio. Si aprono inoltre due linee di ricerca: 1. una prima questione da definire concerne la città ligure: alla luce di quanto emerso dalla disamina della documentazione relativa al Due-Trecento e di quanto precedentemente stabilito dagli studi condotti sulla documentazione genovese Quattro-Cinquecentesca (Casarino, 1982, p. 74) occorre tracciare le linee di evoluzione verso un sistema che nell’ultimo secolo del medioevo appare decisamente più rigido e controllato dalle arti. 2. una seconda linea di ricerca è relativa alla partecipazione degli artigiani alle attività commerciali che può quasi sicuramente essere estesa ad altri centri mercantili del Mediterraneo, dal momento che si dispone di una cospicua documentazione notarile che riguarda altre città a partire dal Trecento.

  • Rosa Canosa - Il titolo comitale nella prima età normanna: un esperimento di contestualizzazione

    La storiografia sui Normanni d’Italia si è da sempre confrontata con un problema identitario. La conquista normanna ha, infatti, introdotto nuovi protagonisti nel panorama politico dell’Italia del Sud, già molto vario. Si è reso necessario, dunque, da un lato indagare le permanenze e i fattori di discontinuità nei quadri istituzionali e politici; dall’altro lato, esaminare gli elementi di raccordo fra conquistatori ed élites locali. Questa tesi si inserisce all’interno di questi due filoni di indagine tradizionali, per riesaminare il problema degli elementi di continuità fra i ceti dominanti dopo la conquista (metà secolo XI-inizi XII) attraverso l’esame della titolatura, e nello specifico del titolo comitale, scelto come filo conduttore perché si colloca alla convergenza di tre dimensioni diverse: la funzione e lo status sociale dei soggetti titolati, la natura del potere esercitato, e la dimensione territoriale della carica. Le indagini sono state svolte negli antichi principati longobardi, soprattutto quelli di Capua e di Benevento, e nell’antico Tema di Longobardia. Sono emersi alcuni mutamenti significativi. In primo luogo fra i detentori del titolo comitale, che dopo la conquista sono quasi unicamente normanni: i rari casi di conti longobardi (nel secolo X il titolo di conte aveva sostituito quello di gastaldo fra i Longobardi meridionali) che mantennero il titolo sotto il dominio normanno, mostrano un adeguamento sostanziale alle nuove forme di esercizio del potere diffuse dai Normanni. Anche sul piano dell’organizzazione territoriale sono stati individuati cambiamenti di rilievo, che hanno mostrato l’inadeguatezza della nozione di ‘contea normanna’ come rimando a modelli ben definiti: le tipologie di specificazione territoriale del titolo comitale ‘alternative’ all’uso del termine comitatus sono varie e rimandano alle diverse strutturazioni che i singoli conti diedero ai loro ambiti territoriali. È stato così possibile sfumare un’opposizione frequentemente proposta dagli storici fra la capacità di sopravvivenza e di integrazione dell’antica nobiltà longobarda dei principati con i nuovi dominatori, soprattutto attraverso i matrimoni misti, e la rottura provocata dalla conquista normanna nell’antico Tema di Longobardia, dove l’assenza di un preesistente ceto comitale di lingua latina e di religione cristiana rendeva più evidente il cambiamento. Nel corso del lavoro è stato possibile osservare che anche negli antichi principati longobardi, dove questo ceto era presente e dominante al momento dell’arrivo dei Normanni, emerge un mutamento molto più profondo di quanto si sia finora pensato. E che se è vero che i Normanni si ispirarono in vari modi alla tradizione di potere pubblico dei principi e dei re longobardi, è altrettanto evidente che essi costruirono empiricamente il loro potere usando materiale eterogeneo, ma soprattutto una superiorità politica che li rendeva di fatto i nuovi detentori del potere pubblico.


  • Luigi Tufano - Gli spazi del nobile: i Caracciolo nella Napoli del Quattrocento

    La Napoli del XIV e XV sec., capitale di un Regno, è il contesto ideale per le istanze di legittimazione e di affermazione socio-politica di antiche famiglie patrizie e di homines novi, esperti dei saperi tecnico-giuridici ed impegnati nei regia officia. I Caracciolo di Napoli, gens urbana, rappresenta meglio di altre queste istanze. Un discorso sui nobili Caracciolo ne presuppone un altro sul concetto di nobilitas neapolitana o meglio sugli attributi auto-referenziali e sui modelli comportamentali adottati dalla gens. Tristano Caracciolo, nobile umanista vissuto tra XV e XVI sec., propone, in contrasto con le tesi di Poggio, un paradigma etico fondato sulla fidelitas del nobile e sul suo impegno al servizio del re dal quale riceve legittimazione e profitto. Il nobile napoletano è un homo activus inserito in un consessorium – il seggio – nel quale si forma e attraverso il quale esplica il proprio ruolo nella società: gli oziosi portici di Poggio sono l’esempio più chiaro in cui un consesso di patrizi coopera. La requisitoria in difesa della nobiltà è la difesa del patriziato napoletano che rivendica per se un modello di nobiltà fondato sul servizio e i cui paradigmi si rintracciano nel sangue e nella virtù. Ritornando ai Caracciolo, la famiglia è un insieme ampio che condivide una memoria comune delle origini ma che, allo stesso tempo, favorisce la formazione di lignaggi autonomi e il moltiplicarsi dei ruoli politici e delle basi economiche. La tradizione erudita moderna esalta l'unità e l'autoctonia della gens salvaguardando tuttavia la distinzione nei due grossi rami dei Rossi e dei Pisquizi con una propria storia particolare. All'inizio del XV sec. si costituirono due ampi gruppi parentali, con origine e strutture interne diverse, che nel 1432 (con l'omicidio di Sergianni) collisero costituendo un punto di osservazione privilegiato per lo studio delle dinamiche interne di potere familiare. La famiglia, nella sua ampia accezione, condivide alcuni caratteri che ne sanciscono l'appartenenza ad un particolare contesto sociale e territoriale: il seggio di Capuana. Le case dei Caracciolo erano tutte site nel territorio del seggio in conformità con le sue normative che prevedevano il domicilio entro i suoi confini per chi desiderasse goderne le prerogative e gli onori. Tuttavia non in modo indistinto. Anzi lo schema insediativo rispecchiava una strategia di occupazione e di controllo di spazio urbano politicamente e socialmente rilevante come la zona a ridosso dello stesso seggio di Capuana o la platea di San Giovanni a Carbonara. Le tombe e le cappelle gentilizie non seguivano un modello unitario ma erano dislocate su più istituti religiosi mantenendo tuttavia il carattere elitario della scelta. Il senso di appartenenza e di tutela del proprio status sociale è un parametro costante che si mostra anche nel destino delle donne: le scelte matrimoniali e la scelta del chiostro. L'endogamia programmata e la proliferazione del sistema lignaggio fu una delle tecniche adottate dai Caracciolo per prevenire la devoluzione e la dispersione dei beni e per mantenere la propria dignità nobiliare. I matrimoni, come nel caso documentato dei Rossi di Gerace e Nicastro, furono anche strumento di penetrazione e di rafforzamento territoriale oltre che la palese testimonianza della costruzione di un'identità di ceto. L'esempio forse più congruo per presentare questo processo di costruzione è la monacazione che avveniva, per le donne di Capuana, secondo alcuni parametri di scelta che tutelassero la claridad de la sangre della comunità monastica. L'omicidio di Sergianni e il collasso del suo sistema di potere rivelano una conflittualità interna alla famiglia che non può farsi risalire una rivalità personale o genetica quanto piuttosto al decorso delle carriere burocratiche e militari a corte che nella metamorfosi da officiales a baroni e nella ricerca di spazio di azione poneva i propri cardini.

 

Ciclo XXI

  • Yannick Fonteneau - Sviluppi precoci del concetto di lavoro meccanico (fine 17° - inizio 18° secolo) : quantificazione, ottimizzazione e profitto dell'effetto degli agenti produttori

Prendendo come punto di riferimento il concetto di lavoro meccanico nella fisica teorica introdotto dagli ingegneri del 19° secolo (Coriolis et Navier), la tesi mostra un legame di questo concetto con le pratiche adottate all'alba del 18° secolo nell'Accademia Reale delle Scienze di Parigi, nello specifico nelle opere di Amontons e di Parent. La tesi vuole quindi mostrare come e perché il concetto. Concetto che cominciò a svilupparsi in questo ambiente nella prima parte del 18° secolo, come in seguito sia stato ripreso, arricchito, modificato da Pitot, Bélidor, Desaguliers, D. Bernoulli, e come sembra sia stato ignorato da sapienti più teorici come D'Alembert. Il ruolo della rottura della visione statica della macchina sembra determinante. Appariva allora una forte dipendenza di questo concetto dalle problematiche che lo stesso avrebbe invece permesso di risolvere Tali problematiche erano incentrate sulla qualifica e sull'ottimizzazione dell'effetto degli uomini, degli animali e delle macchine in situazioni usuranti, e sul confronto vicendevole con il profitto economico come una delle finalità da perseguire. La storia del concetto si può vedere come un'interfaccia permanente tra meccanica teorica, meccanica pratica e aspetti produttivi. Si suggerisce quindi che la legittimità del concetto tenga nella sua capacità a prendere in conto in maniera pertinente il lavoro degli agenti produttori. Infine, la tesi s'incarica di ricreare lo spessore della realtà al di là dei concetti e delle problematiche, mostrando ciò che devono alle strategie governative ed alle pratiche dell’ingegneria.

 

  • Walter Tucci – La mobilità sociale nella società contadina della campagna torinese (XVII secolo)

Questa tesi è centrata sui temi della mobilità sociale, di quella geografica e sui meccanismi che le rendono possibili in una società rurale d’ancien régime nel corso del secolo XVII. Il case study scelto è la comunità contadina di Lucento, feudo di origine medievale situato sul territorio della città di Torino, capitale del ducato sabaudo che nel Seicento diventa il principale centro economico e amministrativo del Piemonte occidentale. L’immediata prossimità di Lucento alla città e al più importante centro di raccolta annonaria del ducato è il principale fattore che determina sia intensi e inediti processi di rinnovamento della popolazione sia notevoli fenomeni di mobilità sociale, soprattutto ascendente. In questa tesi la campagna della città si configura come un contesto dinamico da cui scaturiscono numerose storie di mobilità sia collettive sia individuali. Quest’ultime sovente approdano in città, passando attraverso la filiera dell’approvvigionamento dei prodotti agricoli e dell’allevamento, e che documentano la forte capacità dell’élite contadina di saper costruire ampie reti di relazioni d’affari e di parentela sovralocali. In un secolo generalmente descritto dalla storiografia come stagnante dal punto di vista demografico ed economico, si scopre che in questo contesto “semi-rurale”, o “semi-urbano”, di cui la produzione foraggera è un elemento centrale, si realizzano rapidi processi di mutamento dell’economia agraria e dell’organizzazione del lavoro sui poderi, come la trasformazione dei patti agrari e la scomparsa della figura del massaro, sostituito dai salariati agricoli annuali (bovari) e giornalieri. Tutta la riflessione si sviluppa intorno a un’analisi che costantemente fa interagire, su più livelli, i numerosi indicatori economici elaborati nel corso della ricerca (inflazione monetaria, prezzi, salari, rendita agraria, canoni d’affitto, profitto dell’impresa agricola, produttività dei poderi), le principali variabili demografiche della popolazione contadina, e le numerose vicende biografiche che rendono conto del progressivo formarsi, nel corso del secolo, di un nuovo ceto medio rurale. Riprendendo vecchi schemi interpretativi, forse troppo presto messi da parte, che hanno dominato gli studi di storia agraria (il modello malthusiano e ricardiano) tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso (Abel, Le Roy Ladurie, Labrousse) e innestando su di essi le tecniche d’indagine messe a punto dall’esperienza microstorica, ma tenendo conto anche delle recenti sollecitazioni storiografiche provenienti sia dagli studi di storia rurale francese (Moriceau, Postel-Vinay e Hoffman) sia dai lavori che hanno messo in discussione per il periodo moderno il paradigma della “società immobile”, questa tesi mette insieme e fa interagire molteplici modelli di analisi e paradigmi interpretativi differenti. Il fine è di proporre un originale modello di sperimentazione metodologica utile per future ricerche su contesti analoghi centrati sullo stretto legame, in periodo moderno, tra città e campagna.


Ciclo XXII

  • Agnese Maria Cuccia - Lo scrigno di famiglia. La dote a Torino nel Settecento

Per tutto l’ancien régime la dote delle spose costituiva un capitale inalienabile, una sorta di fedecommesso il cui usufrutto era di spettanza dei mariti, ferma restando la proprietà femminile. Poteva essere intaccato solo in occorrenza di situazioni eccezionali, che la giurisprudenza sabauda aveva limitato allo stato di inopia dell’aggregato domestico, alla necessità di dotare le figlie, all’esigenza di liberare il coniuge detenuto in carcere, al desiderio infine di “surrogare” l’importo dotale, ovvero di mutare il bene che i mariti, all’atto di accettare la dote delle loro mogli, avevano fornito a garanzia delle donne. Il caso studio di questo lavoro è stato fornito proprio dal rinvenimento di un corpus cospicuo di suppliche che famiglie abitanti nel Piemonte settecentesco avevano inviato alla suprema magistratura dello stato, il Senato, per richiedere la licenza di alienare il proprio patrimonio dotale. Le suppliche non descrivono solamente la situazione congiunturale nella quale le famiglie si trovavano al momento dell’inoltro dell’istanza, ma raccontano anche la storia dei mille modi in cui era stato usato il capitale dotale. Questa informazione risulta preziosa se si pensa che di norma la storiografia ha fatto propria la formula giuridica della dote concepita ad sustinenda onera matrimonii senza però riuscire a spiegare, capire e misurare il peso e la funzione che essa poteva avere all’interno dell’aggregato domestico. Uno degli obiettivi di questo lavoro è stato quello di comprendere in che modo il monte dotale potesse “sostenere i carichi del matrimonio”. Emerge infatti come la dote rappresentasse una porzione cospicua del patrimonio della famiglia: era decisiva sia nei primissimi anni del focolare, sia in casi eccezionali, sia come integrazione del reddito, sia come fonte di rassicurazione per i membri dell’aggregato domestico. La dote rappresentava, appunto, un vero e proprio “scrigno” che si decideva di scoperchiare in caso di bisogno. Ma non solo. Il cuore di questo lavoro sta nel concepire la dote come una potente chiave interpretativa dei ruoli di genere all’interno dell’aggregato domestico. Contro lo stereotipo della divisione famigliare del lavoro e dei compiti, e della netta separazione delle rispettive sfere di influenza, questa ricerca ha lo scopo di dimostrare una diversa distribuzione dei poteri decisionali tra i coniugi e lo fa partendo proprio dell’analisi dell’impiego del capitale dotale durante il matrimonio. Per valutare a tutto tondo il peso decisionale dei singoli membri all’interno della coppia si è deciso di allargare il campo di indagine e di esaminare approfonditamente la vita degli individui grazie all’approccio biografico. La ricostruzione di 'tranches de vie' i alcune famiglie torinesi ha permesso valutare il ruolo che il capitale fornito dalle mogli rivestiva non solo al momento del matrimonio, ma soprattutto nella vita delle coppie all’indomani della celebrazione dell’unione: ne è emersa la sua funzione cruciale non solo in termini economici, ma in termini più generali dei rapporti di potere all’interno della famiglia, delle relazioni di genere e dei comportamenti di tutti i membri dell’aggregato domestico.

  • Martino Laurenti - Terre di confine. Frontiere politiche e frontiere religiose sulle Alpi occidentali (XVI-XVII secolo)

La tesi di dottorato è uno studio centrato su un territorio di frontiera: le cosiddette «valli valdesi», in Piemonte, tra Cinque e Seicento. Terre di frontiera politica, perché tra XVI e XVII secolo furono a lungo contese tra la monarchia francese e il ducato sabaudo nell’ambito del più ampio scontro tra la Francia e gli Asburgo per il controllo dell’Italia settentrionale. Ma anche terre di frontiera religiosa, perché in questi villaggi cattolici e valdesi condividono spazi politici (comunità, assemblee di valle, …), condividono spazi fisici (cimiteri, talvolta chiese, mercati, …) e infine condividono risorse locali. La tesi analizza gli intrecci tra la dimensione internazionale dei conflitti scaturiti dal problema del controllo dei passi alpini e la dimensione locale dei conflitti (o degli accordi) che nascono dalla coesistenza tra gruppi religiosi locali. I mutamenti di sovranità politica sono stati analizzati attraverso gli occhi della popolazione locale, protestante e cattolica. Ne è emerso un quadro nel quale la dialettica politica locale (che in determinati periodi assume la forma di un violento scontro fazionario) è fortemente condizionata dalle pressioni esterne alle comunità: pressioni che si concretizzano non solo nei meccanismi con cui Torino e Parigi cercano di assicurarsi la fedeltà delle popolazioni locali, ma anche nelle appropriazioni della cultura e della vita politica locale da parte di controversisti cattolici e protestanti, che fanno di queste comunità un «caso» politico-religioso internazionale.


Ciclo XXIII

  • Alessandro Bianchi - La diplomazia a corte. Uomini e apparati di governo nel ducato di Mantova (1665-1708)

    Se una consolidata tradizione di studi e ricerche ha da sempre sottolineato l'efficienza e la capillarietà della diplomazia dei Gonzaga di Mantova tra Cinque e Seicento, le vicende degli ultimi cinquant'anni del piccolo ducato padano hanno sino ad oggi goduto di scarso interesse in ambito storiografico. Offuscato dagli splendori rinascimentali e dalle tragiche vicende legate alla guerra di successione del 1628-31, il secondo Seicento mantovano è stato generalmente rappresentato come un'età di ineluttabile decadenza, vieppiù suffragata dalle scarse qualità di governo mostrate dall'ultimo duca di Mantova e Monferrato, Ferdinando Carlo Gonzaga-Nevers (1652-1708). Con questa indagine, Alessandro Bianchi ha cercato di ricostruire le dinamiche di potere del piccolo Stato padano attraverso l’analisi dell'apparato diplomatico gonzaghesco, concentrandosi sia sulle istituzioni ducali che sull'attività concretamente espletata dai diplomatici al servizio della Casa di Mantova nel tardo Seicento. Ciò ha consentito a Bianchi di ridefinire non solo i caratteri della 'decandenza' gonzaghesca, ma di testimoniare anche le continuità e financo l’efficienza mostrata dalle istituzioni mantovane, non trascurando le strategie famigliari, i legami di ceto e i percorsi di nobilitazione che legarono le élites di potere locali al principe tra XVII e XVIII secolo.
  • Luciano Cumino - L'amministrazione della giustizia criminale in una società di Ancien Régime. Norme e pratiche giudiziarie a fine Settecento nella periferia dello stato sabaudo.

    A fine Settecento l'amministrazione della giustizia criminale all'interno dello stato sabaudo era fondata su un ordinamento penale particolarmente severo e tradizionalista, che non lasciava alcun spazio alle richieste di rinnovamento portate avanti da philosophes e riformatori. Il mantenimento della tortura e della pena di morte erano gli aspetti più eclatanti di una giustizia criminale repressiva e conservatrice, rappresentata dalle disposizioni contenute nelle Regie Costituzioni del 1770, la raccolta di leggi in cui erano contenuti i principi dell'ordinamento giudiziario della monarchia. La severità delle leggi doveva fare però i conti con una pratica giudiziaria che spesso si discostava dalla norma scritta. La tesi di dottorato intende analizzare le modalità con cui i giudici portavano avanti i procedimenti criminali, utilizzando come case studies alcuni processi per omicidio condotti dai giudici delle province di Nuovo Acquisto annesse nel corso del Settecento allo stato sabaudo. La tesi analizza anche la composizione e il funzionamento dei tribunali di primo grado che avevano il compito di formare i procedimenti giudiziari.

Ciclo XXIV

  • Cecilia Carnino - Dal lusso al consumo. Le implicazioni politiche del linguaggio economico in Italia tra antico regime e rivoluzione. 1751-1799.

    L’oggetto di questa tesi è la ricostruzione delle implicazioni intellettuali della riflessione sul lusso e il consumo nell’Italia della seconda metà del Settecento, con una particolare attenzione al passaggio dall’antico regime al periodo rivoluzionario, attraverso differenti livelli di indagine: dalla teoria economica alle riflessioni politiche, dalle implicazioni sociali alle pratiche politiche. La ricerca ha permesso di porre in evidenza il forte valore che la riflessione sul consumo assunse nell’Italia della seconda metà del XVIII secolo, sia dal punto di vista economico sia da quello politico. Da un lato, il consumo e la dinamica dei desideri furono assunti infatti come fattore centrale della crescita della ricchezza, dall’altro lato, la riflessione sul lusso e il consumo veicolò una critica radicale alle gerarchie di antico regime e consentì di proporre un nuovo modello di società, fondato su basi più egualitarie e capace di armonizzare interesse privato, giustizia sociale e prosperità pubblica. Il tema costituisce inoltre un percorso nuovo per gettare luce sulla cultura politica e economica italiana nel passaggio dall’antico regime alla fase rivoluzionaria. Collocandosi nel solco della riflessione economica che aveva caratterizzato la riflessione italiana a partire dagli anni Sessanta, ma allo stesso pienamente coscienti della necessità di una rottura politica radicale, i patrioti italiani individuarono nel consumo il mezzo privilegiato attraverso cui assicurare non solo la prosperità pubblica, ma anche un’uguaglianza tra gli individui, fondata sull’egualitarismo delle possibilità.

 

Ciclo XXI

  • Diego Giachetti - Il Sessantotto e la Resistenza negli studi e nella militanza di Guido Quazza

Guido Quazza parte da un assunto interessante e degno di essere approfondito: la guerra partigiana, la Resistenza e il ’68 sono i due momenti di rottura più significativi della storia del novecento in Italia, sono due momenti “cruciali”. Esiste un legame, una continuità, -colta, attraverso un percorso analogico, negli aspetti esistenziali prima che politici- fra i due eventi storici apparentemente così lontani e diversi che egli individua nei seguenti aspetti: a) l'irruzione della politica nella sfera del quotidiano; b) il rapporto singolo/assemblea che rimanda a quello partigiano/banda, dove l'adesione è completa, mai delegata; c) il carattere di "iniziativa dal basso"; d) il "senso di pienezza dato dalla responsabilità collettiva e dalla gioia di un vivere costruito insieme nelle esperienze e nelle regole". E ancora: “ nella protesta studentesca apparivano chiari elementi di metodo che richiamavano la Resistenza: l’iniziativa dal basso, la partecipazione, il rifiuto dell’autorità e della delega” Fonti e archivi: Principalmente l'archivio Guido Quazza conservato presso l?istituto Storico della Resistenza e della storia Contemporanea si Torino "Giorgio Agosti"; poi altro fondo quali il Marcello Vitale a Antonicelli del Centro Studi Piero Gobetti e quelli versati alla Vera Nocentini di Torino


Ciclo XXII

  • Nicola Adduci - Il fascismo repubblicano a Torino (1943-1945)

 

  •  Alessandra Chiappano - Le deportazioni femminili dall’Italia tra storia e memoria

La presente ricerca si propone di delineare un quadro il più possibile esaustivo delle deportazioni femminili dall’Italia, avvenute durante il biennio 1943-1945, partendo dal presupposto che esista una specificità nel modo in cui le donne hanno vissuto e poi raccontato il Lager. Si tratta essenzialmente di una ricerca di tipo qualitativo e non quantitativo, anche in considerazione del fatto che i dati pressoché definitivi sulle deportazioni dall’Italia, scaturiti dalla ricerca coordinata dai professori Mantelli e Tranfaglia, sono stati pubblicati recentissimamente presso Mursia. L’intento da cui sono partita è quello di delineare un quadro d’insieme che, pur nella differenza dei singoli destini, tenga conto delle vicende occorse sia alle donne deportate per motivi razziali, sia a quelle arrestate e deportate perché appartenenti al variegato mondo della deportazione politica, evitando così la frattura sempre più radicale che si è venuta tracciando tra deportazione razziale e politica. Il lavoro è suddiviso in cinque capitoli. Nel primo, che funge da introduzione, si darà conto del contesto storiografico nazionale ed internazionale sulle problematiche legate alla deportazione e alla storia di genere e saranno discussi i contributi più interessanti della memorialistica femminile. Il secondo capitolo è dedicato alla presentazione e all'uso delle fonti utilizzate. Si tratta di circa 120 testimonianze orali raccolte da intervistatori diversi e che fanno parte di raccolte depositate essenzialmente in tre luoghi: Torino, Milano e Trieste. Trattandosi di fonti orali, pur senza voler riprendere l'ampio dibattito sull'uso delle fonti orali, è parso tuttavia necessario ribadire la particolarità di queste fonti: soggettive, parziali, in cui un ruolo fondamentale è giocato dall'intervistatore, come è stato ben rilevato dagli studiosi di storia orale e in particolare da Alessandro Portelli. Le macroscopiche differenze tra una raccolta e l'altra hanno tuttavia permesso di delineare un quadro sfaccettato e ricco e, sebbene la lettura di genere non rientrasse negli interessi primari degli intervistatori, è stato possibile rintracciare nelle interviste materiali sufficienti tali da consentire un'analisi delle tematiche precipue della deportazione femminile. Nel terzo capitolo, L'universo concentrazionario delle donne, è stato delineato il contesto storico entro cui vanno collocate le deportazioni femminili dall'Italia: pur senza entrare nel merito delle complesse vicende avvenute in seguito all'armistizio dell'8 settembre 1943, ci si è soffermati sulle azioni che hanno portato all'arresto e alla deportazione delle donne e sulle reazioni e le impressioni che esse provarono quando si trovarono a contatto con le strutture repressive in Italia prima e nei Lager situati nei territori del Reich in seguito. Lo studio si è soprattutto focalizzato sui Lager di Auschwitz-Birkenau e Ravensbrück perché sono stati i luoghi di destinazione principali delle donne deportate dall'Italia. Il quarto capitolo costituisce il cuore della ricerca stessa in cui le testimonianze vengono lette ed analizzate alla luce di chiavi interpretative ben precise. Da un punto di vista metodologico si è deciso di collocare al centro dell'indagine il corpus di interviste che fanno parte dell'Archivio della Deportazione piemontese, realizzate all'inizio degli anni Ottanta ed ora depositate presso l'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino. Si tratta di 29 interviste, dalla lunghezza variabile, realizzate da ricercatori diversi, ma assai capaci e tutti formati da un punto di vista professionale. Tali testimonianze sono state analizzate alla luce di una serie di temi che, tenendo presente anche il dibattito storiografico, sono stati ritenuti particolarmente pregnanti: il nesso guerra-deportazione, il corpo, i rapporti con le altre internate, la sessualità e la prostituzione, il ritorno. Pur costituendo il fulcro ed il punto di partenza della mia analisi, tuttavia le testimonianze dell'Archivio piemontese sono state messe a confronto, in una tensione dialogica, con quelle provenienti da tutti gli altri Fondi. Il quadro che emerge porta a concludere che certamente esiste un modo femminile in cui le donne hanno vissuto il campo, lo hanno raccontato e hanno riflettuto sulla loro deportazione. Il quinto capitolo potrebbe apparire, ad una prima analisi, lontano dal tema di ricerca che qui si è voluto delineare. In realtà, lo studio delle carte inedite dell'archivio privato di Luciana Nissim Momigliano ha permesso di ricostruire il profilo biografico di una donna che non solo ha vissuto la deportazione ad Auschwitz-Birkenau, ma che è stata autrice di uno dei più precoci scritti di memoria su Auschwitz, Ricordi dalla casa dei morti, e che poi almeno apparentemente si è dedicata ad altro, come se quella della deportazione fosse una parentesi chiusa. In realtà, dopo la morte di Primo Levi, insieme con il quale è stata arrestata e del quale era amica e continuerà ad esserlo per tutta la vita, Luciana Nissim comincerà nuovamente a testimoniare sulla sua esperienza in campo, come se negli ultimi anni della sua vita avesse deciso che fosse necessario fare i conti con quel doloroso passato. Si tratta quindi di una vita che si apre e si chiude con Auschwitz e che è possibile indagare non solo cogliendola nel momento specifico e limitato dell'intervista, ma attraverso una pluralità di documenti che permettono di ampliare la riflessione alla analisi di una intera vita segnata dalla deportazione.



  • Daniela Orta - La costruzione e la diffusione della memoria delle Cinque Giornate di Milano e della Repubblica Romana (1848-1898)

    La tesi ricostruisce i punti di snodo e di passaggio attraverso cui prese forma, venne elaborata e diffusa la memoria di due eventi, giunti nel tempo a essere considerati momenti fondativi dello stato nazionale: le Cinque giornate di Milano e la Repubblica romana. Il tema si inserisce nel fortunato filone di studi che negli ultimi anni ha posto la propria attenzione su rituali, commemorazioni, linguaggi simbolici generatori di politiche della memoria connessi e subordinati al tortuoso processo di nation building del paese. Al centro della ricerca sono dunque posti due eventi di matrice democratica, entrambi “catalizzatori di energie simboliche e di spazi rituali”, entrambi sottoposti nel corso degli anni, ad opera di politiche della memoria dal segno diseguale, se non a una vera e propria manipolazione, certamente a un’alterazione della originale prospettiva. All’interno di un arco cronologico di medio-lungo periodo, dall’evento in fieri alla crisi di fine secolo nel 1898, viene ricostruito il tortuoso iter segnato da rimozioni e affrancamenti, che accompagnò la memoria dei due eventi, facendone emergere le specifiche singolarità, le divergenze e le molteplici possibilità di contaminazione tanto interne quanto nei confronti della memoria ufficiale. Lo snodarsi del doppio percorso, in un’intrinseca diversità di tempo e spazio, ha portato a esplorare, almeno in controluce e sul tema oggetto della ricerca, il complesso ridefinirsi delle forze democratiche, il processo di costruzione dell’identità di una minoranza al suo interno divisa e frammentata, le cui fasi più delicate, di crisi come di maggior consapevolezza (è il caso delle rotture, per esempio, di Aspromonte e Mentana), sono rilevate dall’efficace termometro dell’uso politico della memoria e dall’accelerazione impressa all’elaborazione e alla messa a punto di un proprio autonomo bagaglio di tradizioni alternative a quelle monarchiche e moderate. La ricostruzione dell’imponente e incessante sforzo a Roma come a Milano, giocato su più piani e con diversi strumenti (dalla memorialistica, alle commemorazioni ufficiali, dalle celebrazioni di anniversari all’erezione di monumenti) nel costruire rinnovate rappresentazioni della memoria, oppositiva e minoritaria, ma anche punto di incontro fra più istanze e sintesi di una univocità di intenti nei confronti della memoria ufficiale ha fatto emergere una persistente dialettica, segno della complessità dell’uso politico della memoria e della densità di problematiche che accompagnarono la storia dell’Italia unita, a cui inevitabilmente tali dinamiche si intrecciano.



  • Dario Pasquini - Ansia di purezza. Il fascismo e il nazismo nella stampa satirica italiana e tedesca del dopoguerra (1943-1963)

    La ricerca costituisce uno dei primi tentativi di comparare le “culture della memoria” relative al nazismo e al fascismo nell’Italia e nella Germania del dopoguerra. Oggetto della ricerca sono i testi verbali e visivi di circa quaranta periodici, pubblicati fra il 1944 e il 1963 in Italia, in Germania Ovest e in Germania Est. Nel capitolo I vengono analizzate alcune questioni metodologiche. In particolare viene discussa una caratteristica delle fonti: i numerosi riferimenti, nelle immagini riguardanti il fascismo e il nazismo, alla sfera della contaminazione . Nel capitolo II si è cercato di ricostruire, con fonti archivistiche in gran parte inedite, la storia della stampa satirica italiana e tedesca del periodo oggetto dell’indagine. Il capitolo III presenta le somiglianze fra le fonti tedesche e quelle italiane. Esse riguardano ciò che si è chiamato una “esternalizzazione” dei due regimi, che vengono rappresentati come qualcosa di ridicolo o di estraneo alla comunità nazionale. Nel capitolo IV vengono analizzate le particolarità delle fonti italiane: negli anni dopo il 1948 si affermò una “internalizzazione” del fascismo, che consiste in immagini banalizzanti o glorificanti il regime. Il capitolo V tratta le particolarità del contesto tedesco, in particolare la lunga e contraddittoria, ma critica “internalizzazione” del nazismo in Germania Ovest e la durevole “esternalizzazione” in Germania Est. Questo sviluppo viene discusso attraverso la presa in considerazione della componente di orrore del nazismo, alla quale nel testo viene attribuito un ruolo importante.



  • Luciano Villani - L'Istituto Fascista Autonomo Case Popolari e le borgate romane. Storia urbana, politica e sociale

    La ricerca rappresenta il primo lavoro dedicato specificatamente alla storia delle borgate romane costruite in epoca fascista. Essa riflette un interesse per diversi ambiti disciplinari, dalla storia urbana, a quella politica e sociale, inserendosi in un filone di studi sull’edilizia cittadina e l’identità socio-abitativa assunta da alcune parti del territorio urbano tra le due guerre, intrapreso nel corso degli ultimi quindici anni, arricchendolo e in un certo senso completandolo. Dopo la “Roma borghese” dei quartieri alti e quella dei rioni centrali sottoposti a demolizione negli anni Venti, in questa ricerca è la periferia romana ad essere al centro di un’indagine approfondita, dalla quale emergono nuove ipotesi interpretative e particolari poco noti su di una pagina essenziale della storia cittadina. Il lavoro è articolato in tre parti. Nella prima, gli attori principali della vicenda, il Governatorato di Roma e l’Istituto Fascista Autonomo delle Case Popolari, sono inquadrati nel contesto delle politiche abitative stabilite dal regime. Dopo una fase di cooperazione, che coincise con l’allargamento dei compiti assegnati all’ente di edilizia pubblica, i rapporti istituzionali tra i due enti vacillarono, sino alla rottura: ne scaturì un brusco abbassamento della qualità degli alloggi destinati alle fasce povere, con la costruzione delle prime borgate di baracche da parte dell’amministrazione cittadina. Dell’Ifacp vengono esaminati i pochi progetti completati in quel periodo, dal punto di vista architettonico e in riferimento ai criteri di assegnazione degli alloggi (analizzati qui per la prima volta), nonché la difficile situazione finanziaria che l’ente attraversò nei primi anni Trenta. Un importante capitolo è dedicato alla nascita delle borgate governatoriali e allo stato di abbandono in cui vennero lasciate. Viene proposta una diversa successione temporale degli interventi edilizi realizzati in periferia, superando l’arbitraria scansione che ha visto borgate nate anche più di un decennio dopo, occupare il posto di “primogenite”. Questa parte si conclude ripercorrendo le tappe e gli esiti della trattativa che sancì il ritorno alla collaborazione tra Istituto e autorità cittadina, con la messa a fuoco delle rispettive strategie ed obiettivi. La seconda parte è forse quella più innovativa, impostata con l’ausilio dei database preparati nel corso della ricerca. Interpretazioni consolidate, come il nesso tra demolizioni al centro e nascita delle borgate in periferia, vengono rimesse in discussione per mezzo di fonti documentarie nuove. Il calcolo di dati statistici sui trasferimenti avvenuti nelle case dell’Istituto ha permesso di ricostruire con maggior dettaglio l’intera vicenda, facendo emergere le modalità di gestione con cui il Governatorato e l’Ifacp affrontarono il problema degli sfratti connessi alle opere di Piano Regolatore, avvenute in un periodo segnato da cruciali trasformazioni, di carattere esteriore della città e nella struttura della popolazione. Il quadro tracciato sulle provenienze degli abitanti delle borgate realizzate dopo il ’35 restituisce una geografia delle migrazioni interne più articolata, in cui molteplici sono le variabili in gioco. In un altro capitolo si definiscono le caratteristiche principali della casa popolarissima, i cui schemi tipologici rimandano al dibattito sul razionalismo e la casa rurale e alla confusione e contraddittorietà con cui esso fu recepito in Italia. Le principali borgate fasciste vengono analizzate dal punto di vista delle scelte finanziarie, dei piani costruttivi, dei materiali usati, dei tipi edilizi adottati e seguite nello sviluppo di una lenta urbanizzazione. Nell’ultima parte, la ricerca ricostruisce le forme in cui andò strutturandosi l’esperimento totalitario del regime nel contesto delle case dell’Istituto. L’ente si sentì investito di una missione educatrice nei confronti del suo inquilinato, propagandando con forza i motivi ideologici su cui si fondava l’ordine sociale fascista, modellando su di essi i Regolamenti interni. L’Istituto affinò metodi di stretta sorveglianza, organizzata per mezzo di un efficiente apparato di controllo, grazie al quale per lunghi anni venne assicurata la pace sociale negli stabili. Le borgate rimasero sostanzialmente estranee al carsico formarsi degli stretti circuiti dell’antifascismo militante e clandestino degli anni Trenta. Le carte di polizia lasciano però intravedere larghe crepe nel consenso al regime, generate soprattutto dalla problematica situazione materiale e lavorativa vissuta nelle periferie. L’assoggettamento agli enti assistenziali costituisce senz’altro un angolo visuale a partire dal quale misurare meglio il tema del consenso.

Ciclo XXIII

  • Antonio Soggia - Lotta politica, riforme sanitarie e questione razziale negli Stati Uniti da Truman a Johnson. La National Medical Association, 1945-1968

La National Medical Association (NMA), l'organizzazione dei medici afro-americani, nacque nel 1895 in risposta al rifiuto dell’American Medical Association di ammettere i professionisti neri. La NMA aveva una doppia identità: gruppo professionale, da un lato, e race organization, dall’altro; di conseguenza, l’identità dei medici neri era il risultato di una negoziazione permanente tra le istanze di classe e quelle razziali. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il ruolo politico della NMA prevalse gradualmente sull’interesse professionale; nel corso degli anni ‘60, la NMA si affermò come gruppo militante, aperto a medici progressisti di tutte le razze interessati ai problemi di salute delle masse nere e di quelle svantaggiate, sebbene l'associazione rimanesse divisa sul ruolo del governo federale nel sistema sanitario. La mia ricerca di dottorato ha analizzato la storia della NMA tra il 1945 e il 1968 in una prospettiva di razza e di classe. Esaminando le carte dell’organizzazione e i documenti dei principali leader della comunità medica nera, ho approfondito l’interazione degli aspetti razziali, politici e professionali nelle attività dell'organizzazione. La mia ricerca ha evidenziato la stretta relazione tra governo e movimenti sociali nella sanità americana, e le connessioni tra diritti civili e diritto alla salute.

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 11/06/2019 15:22
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